Focus con Rosario Pelligra, l'intervista al presidente del Catania

Quel giorno in cui... I destini di Puskás e del Catania si incontrarono, al Cibali

Mentre Catania vestiva gli abiti sociali e urbanistici che le avrebbero permesso di presentarsi al resto della Nazione come la "Milano del Sud", a metà degli anni '50 l'Ungheria stava per vivere l'ennesimo tra gli eventi che da inizio secolo ne avevano segnato fortune e tranquillità. E nessuno sapeva che in quel vortice di coincidenze e congiunzioni astrali, il destino avrebbe aperto per alcuni un passaggio mistico pronto a collegare uno dei più forti giocatori della storia calcistica del pianeta alla terra del vulcano e dell'elefante, almeno per un giorno.

DIFENSORI DELLA PATRIA - Socialmente e politicamente parlando, in quel periodo in Ungheria governava un regime dal nome confortante (si scherza) di "Repubblica Popolare", frutto della pacificazione sovietica post-seconda guerra. E quando si vive in un regime, l'unica cosa che può aiutare a coprire le cicatrici di un popolo è l'azione salvifica dello sport: il calcio in questo è maestro, nel bene e nel male. Dopo la guerra, il regime scelse quale tra le squadre di Budapest dovesse farsi promotrice di ideali e ideologie per la Nazione. D'altro canto, il nome suggerisce la destinazione: la "Honvéd", letteralmente "Difensore della patria", squadra dell'esercito, da quelle parti era ben più di un'intestazione. E una patria da difendere ha bisogno di eroi all'altezza del compito: tra loro "Ocsi", il ragazzino, all'anagrafe Ferenc Purczeld, poi Puskás, era sicuramente il più interessante. Come da progetto, il calcio aiutò e non poco il consolidamento degli ideali di regime: la Honvéd divenne fucina e palestra per la Nazionale magiara, principio fondamentale del concetto di "Squadra d'oro" che, nel 1952 alle Olimpiadi di Helsinki, d'oro si vestirà davvero. In Finlandia sembra esserci una sola rappresentativa in gara. Le altre cinque, Italia inclusa, sono solo comparse: il calcio vero è un'altra cosa e parla ungherese. Sogno che svanisce ai Mondiali svizzeri, due anni dopo: la sconfitta in finale contro la Germania Ovest squarcia il velo che copriva gli occhi del popolo ungherese, come se tutto d'un tratto ci si fosse accorti di stare sotto un regime. Il calcio dà, il calcio toglie. Da quelle parti sta per succedere di tutto.

RIFONDAZIONE ROSSAZZURRA - Poco meno di duemila chilometri a Sud-Ovest di Budapest, a metà degli anni 50' gli animi calcistici erano mossi dall'incessante e ardente voglia di ritornare in massima serie: il Catania, che dalla Serie A era stato estromesso per illecito sportivo nell'estate del 1955, lavorava sodo per ridare forma, sostanza e credibilità ai propri sogni. Non c'è categoria della vita a cui la fenice e il suo Melior De Cinere Surgo non abbiano accesso: nel verbo catanese questo concetto è scritto con l'inchiostro indelebile della rivincita spirituale. Il 1956, che è quanto ci interessa, si pone come crocevia tra la potenza e l'atto, i progetti e la realtà. Alla guida del Catania in cadetteria c'era la triarchia: un presidente, Agatino Pesce, e due vicepresidenti, Giovanni Di Stefano e Michele Giuffrida, che consegnarono al nuovo allenatore, Ernesto Matteo  "Gipo" Poggi, una rosa livellata verso l'alto con gli arrivi importanti, tra gli altri, di Celestino Celio dall'Inter, Sebastiano Buzzin dal Verona e Renzo Uzzecchini dalla Sampdoria. Rifondazione rossazzurra verso orizzonti difficili da decifrare.

CONGIUNZIONE ASTRALE - Per un inconsueto scherzo del destino, la parola "beffa" nella stagione 1956/57 poteva suonare familiare, senza alcuna distinzione linguistica, ai catanesi quanto agli ungheresi. Il Catania riuscì a condurre una metà di campionato ad alti livelli: primo posto condiviso con il Verona a 23 punti al termine del Girone d'andata e aspettative rosee per il prosieguo. Cosa potrà mai andare storto? In Veneto, per lo scontro diretto del 14 aprile, i rossazzurri portano praticamente mezza città: se si vince, la Serie A è ad un passo. Al 54' il Catania è avanti per 0-2, sostanzialmente come l'Ungheria di Puskás nel '54 in finale contro la Germania Ovest: il risultato, alla fine, è identico. Il Verona vince 3-2 con un rigore a quattro minuti dal triplice fischio. A tremare è soprattutto la tenuta psicologica: la formazione etnea vincerà tre delle successive cinque gare, presentandosi all'ultima giornata con l'obbligo di non perdere in casa del Modena. Il Catania non mostra forza, il Modena va in gol all'87' e la stagione si chiude lì. La "beffa" perfetta. In Ungheria non se la passavano mica bene: nel novembre del '56 la Honvéd è impegnata nell'andata degli Ottavi di Coppa dei Campioni contro l'Athletic Bilbao. Perde 3-2, ma ciò che preoccupa è il rientro a casa: sì perché dal 23 ottobre in patria c'era la rivoluzione, quella vera. Riusciranno a raggiungere Bruxelles (con l'Heysel campo neutro per ovvi motivi) per il match di ritorno, con Puskás che ad ogni angolo della strada scenderà dal pullman avvisando il passaggio della squadra per evitare di ricevere più di un proiettile addosso, ma alcuni rifiuteranno in seguito il rientro a Budapest. Verranno accusati così di tradimento e squalificati dalla FIFA per due anni. Prima di arrivare in Belgio per quella che sarà l'eliminazione dalla Coppa e in pratica dal calcio, però, passano dall'Italia. Tappa in Sicilia. Giocano prima a Palermo, poi, il 16 dicembre del '56, il destino apre le porte del passaggio mistico. Il Cibali diventa teatro dei sogni: il Catania e Catania vedranno all'opera una delle squadre più forti di tutti i tempi, e in campo c'è lui. "Ocsi", il ragazzino: Ferenc Puskás. Segnerà da 50 metri, in una partita che finirà 2-9: ma che importa? Puskás, il mancino più importante di sempre (insieme, naturalmente, a Maradona e Messi), aveva incontrato la terra del vulcano: ci aveva passeggiato su, lasciando la sua impronta. Nel giorno in cui le storie dell'elefante e di uno dei calciatori più forti di tutti i tempi si erano strette in un abbraccio. In eterno.